Studio completo ed analisi sui Dieci Comandamenti della Parola di Dio
Uno studio sui comandamenti…mi rendo conto che non sia una grande novità per nessuno, eppure gli argomenti che mi accingo a raccontare hanno cambiato il mio approccio allo studio della Bibbia e hanno rivoluzionato il mio modo di pensare al Santo Benedetto. Questo studio si è rivelato essere un viaggio sorprendente. Un viaggio ai confini di un mistero rivelato e di una promessa attesa. Il mistero è quello di Dio, del suo ineffabile Nome, della sua Parola consegnata a Mosè; la promessa è quella di una vita degna di essere vissuta, in cui libertà, giustizia, rispetto della dignità umana siano i capisaldi in altre parole il tempo, ormai imminente, del ritorno di Gesù: il Messia.
Buona Lettura!
QUELL’ASSURDO DI LIBERTA’
La nostra storia comincia dopo tre mesi da quando gli israeliti erano entrati in quel deserto dai tanti nomi che i carovanieri normalmente attraversavano in quindici giorni e mai avrebbero immaginato che in quei luoghi ne avrebbero trascorsi parecchi altri, quarant’anni per l’esattezza. La generazione uscita dall’Egitto si addormenterà sulla sabbia. Nessuno di coloro che era stato schiavo in terra d’Egitto diventerà pioniere nella terra promessa.
Gli egiziani credevano ancora che quella massa di persone sarebbe tornata indietro stremata da quell’assurdo di libertà. Non erano neanche un popolo, erano solo uomini e donne che condividevano un antenato ed una solitudine. Ma accade qualcosa di inaspettato. In una terra arida e ostile alla vita quale solo un deserto può essere, nasce qualcosa di nuovo: un popolo. La condizione che il Santo Benedetto pone per questa nascita è la libertà. Libertà ‘fuori’ e ‘dentro’, la prima si manifesta con l’uscita dall’Egitto; la seconda è il dono del Decalogo, le Dieci Parole, che non sono Parole di Legge ma le Leggi della Parola, il dinamismo stesso della vita, la gioia di vivere, la pienezza del sentirsi umanità. L’uscita dall’Egitto fù una nuova nascita, un battesimo di nuova vita nel passaggio tra le acque del Mar Rosso (1 Corinzi 10,1-13).
Tornando alla nostra storia, troviamo gli Israeliti ai piedi del monte Sinai. Arrivavano da Refidim (Es 17:1-8; 19:2; Nu 33:14-15) dove la loro fiducia verso Dio aveva vacillato per la mancanza di acqua ma fù sempre a Refidim che respinsero l’esercito di Amalek.
Con loro, davanti alla Montagna, Mosè.
MOSE’
Quando nacque scampò ad una strage di bambini, salvato da una giusta tra le nazioni, Bythia la figlia del faraone. Fù cresciuto da una nutrice ebrea, sua madre naturale, che inculcò nei suoi primi anni di vita il germe ebraico facendolo crescere in un’atmosfera Levitica. Cresciuto fu riconsegnato alla figlia di Faraone. Divenne un principe egiziano. Capitano della leggendaria cavalleria del faraone, per il quale rischiò la vita sui campi di battaglia. Bevve a piene sorsi la filosofia egiziana, studiò il ‘libro dei morti’ che gli egizi dovevano recitare davanti ad Osiride e conobbe anche il ‘Codice di Ammurabbi’ dei babilonesi. Bruscamente, brutalmente, senza che si sappia perché, si realizzò in lui il risveglio alla coscienza ebraica. Risveglio che la Bibbia condensa in alcune parole lapidarie: “Quando Mosè fu cresciuto, si recò dai suoi fratelli” (Es 2:11). Questo ritorno è Esodo per eccellenza, è ritorno verso se stessi, è ritorno verso Dio, è Teshuvah.
DIO DELLA STORIA
Leggendo il comandamento si osserva che il Signore, inaspettatamente, si presenta come Dio della storia e non come il Creatore del Cosmo.
La cosa più logica sarebbe stata che si fosse presentato come il Creatore del cielo e della terra, questa sarebbe stata la forma forse più ragionevole. Invece Lui si presenta come Dio che interviene nella storia. In realtà il rapporto tra Dio e Uomo è un rapporto nel quale Dio si presenta come Colui che interviene nella storia per liberare l’Uomo. Probabilmente perchè l’uomo per sua struttura e conformazione capisce la sua esperienza che è un esperienza storica e non i grandi principi dell’essere. Solamente pochi possono capire i grandi principi dell’essere e i dieci comandamenti non sono per pochi ma devono essere per tutti, quindi devono essere comprensibili sia da chi ha una capacità di comprensione ontologica, che è una minoranza, sia da chi ha una capacità di comprensione storico esistenziale che è invece la maggioranza.
Per la tradizione Ebraica così come per quella Cristiana, Dio entra nella storia, l’infinito entra nel finito. Per i Cristiani, Dio diventa uomo, il Verbo, – la Parola diventa Carne: è un incarnazione nella carne. Per gli ebrei, Dio diventa testo. Dio si manifesta in un testo e nei suoi limiti, la Torah dunque non è più un informazione su Dio ma è una manifestazione del divino. Questo è uno dei motivi per cui non è possibile ricevere la Parola e mettersela in tasca, far credere di possedere l’infinito e che lo si domini. La responsabilità degli uomini è di rendere all’infinito il suo statuto di infinito.
UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA REALTA’-
Secondo la tradizione ebraica il mondo è stato creato con Dieci Parole (provate a cantare nel primo capitolo di Genesi della vostra Bibbia quante volte è ripetutata la parola ‘Disse’!). È un parlare dolce che crea la natura. Sono dieci parole che in sette giorni creano il Cosmo che è un “sistema di leggi”. Sul Sinai sono ancora Dieci le Parole dette da Dio ed un altro “sistema di leggi” viene promulgato. Il primo è un sistema di NECESSITA’ che è la Natura, nessuno cioè può esimersi dal rispetto delle leggi naturali quali la gravità, il secondo è un sistema di LIBERTA’ in quanto il rispetto dei comandamenti non è obbligatoria ma è una scelta. Il passaggio tra la fase della natura pura e semplice come stato di necessità e la dimensione della libertà avviene in Pesach dove si verificano le dieci piaghe. Le piaghe di Egitto rappresentano il superamento delle leggi naturali, esse sono il sovvertimento di ciò che la natura direbbe che bisogna essere. È come dire che dalla dimensione naturale attraverso le dieci piaghe si passa alla dimensione del superamento delle leggi naturali alla dimensione della libertà. Si potrebbe intravedere una simmetria con il Nuovo Testamento, infatti anche la vita, la morte e la resurrezione di Gesù, che incarna festa di Pesach, rappresentano un sovvertimento delle leggi naturali ed un passaggio ad un sistema di Libertà.
FAREMO E ASCOLTEREMO
Quando il Signore parlò tutta la terra rimase in silenzio. Quando il Signore presentò la Torà sul Sinai nessun uccello cinguettò, nessun bue muggì, nessun serafino proclamò la santità del Creatore. Il mare non si mosse, tutto l’universo ammutolì e ciò quando la Voce nel signore pronunciò: “Io sono il tuo Dio”, essi ricordando tutte le volte che avevano visto l’Egitto adorare le forze della natura come deità capirono che il Signore è Ehàd, è Uno. Il Santo Benedetto donerà personalmente la Legge - si udì dire in mezzo al popolo e il loro entusiasmo fu tale che dissero – Tutto quello che il Signore ha detto, faremo e ascolteremo – proclamando così la loro disponibilità ad osservare le norme prima ancora di averle udite.
Il Primo Comandamento
Un’altra riflessione che probabilmente ognuno di noi ha fatto leggendo il Primo Comandamento è: qual’è il comando?
C’è un avvenimento citato nei Vangeli che penso venga in nostro aiuto. Accadde che un giovane, ben noto nella sua città e annoverato tra i capi, incontrò Gesù e quando Lo vide si gettò ai suoi piedi. Il ragazzo non domandò dei grandi quesiti di cui spesso dibatteva in pubblico, chiese semplicemente ciò che molti di noi almeno una volta nella vita si sono domandati cioè: cosa bisogna fare per vivere per sempre?. Lui lo guardò ma non aggiunse nulla di nuovo a quanto già non si fosse udito in Israele, se vuoi entrare nella vita – disse – osserva le Asseret Diberot (Mc 10:17-22; Lu 18:18-27; Mr 10:17-27). ‘Quali?’ chiese incredulo il giovane, che probabilmente si sarebbe aspettato ben altre novità dall’uomo che tutti riconoscevano come un rivoluzionario, molti come liberatore e alcuni addirittura come il Messia. E invece proprio a quelli si riferiva il suo interlocutore: alle Dieci Parole dette sul Sinai. Quelle ascoltate dal popolo direttamente dalla voce del Signore.
Una delle cose incredibili di questa storia è che due dottori della Scrittura hanno un fraintendimento proprio riguardo ai Dieci Comandamenti che sono un pilastro della Legge. In realtà la causa di questo fraintendimento risiede nel fatto che ciò che viene comunemente tradotto come ‘Dieci Comandamenti’ in ebraico si dice: ‘Asseret Diberot’. Asseret cioè ‘dieci’, Diberot cioè ‘detto’ o ‘parlata’ (deriva dalla parola ‘davar’), pertanato la traduzione più fedele al testo originario sarebbe: ‘ Le Dieci Parole’. A questo punto abbiamo, apparentemente, complicato le cose perchè essendo i Dieci Comandamenti in realtà ‘Dieci Parole’, ciò implica che potrebbe anche non esserci un comando nel primo comandamento (o meglio prima parola). Tale problematica è stata ampiamente affrontata tra i commentatori medievali e successivi. Esistono due linee di tendenza sull’interpretazione di questo comandamento. Teniamo però bene in considerazione il fatto che coloro che pensano che esso non sia un comandamento, proprio in quanto tale lo ritengono ancora più vincolante che se lo fosse. Infatti un comandamento è soggetto al libero arbitrio, se non lo è allora vuol dire che è un dato di fatto. In questa linea di pensiero si sostiene che la Mitzvà ricade solo su ciò che è governato dalla libera scelta e dalla volontà, e l’esistenza di Dio non è sottoposta alla libera scelta dell’uomo e quindi non possiamo chiamarlo comandamento, credere o non credere non può essere sottoposto a normativizzazione. Secondo questa visione il comandamento sarebbe una premessa logica ed una presentazione.
Una linea di pensiero diversa è rappresentata da Maimonide che invece, in maniera molto chiara, nel suo elenco (redatto in ordine di importanza) delle Mitzvot pone questo comandamento come primo.Schiavitù, liberazione, esodo, nuova nascita: la storia di un popolo. Quel popolo a cui noi Cristiani siamo stati innestati (lett. Romani 11). Il loro Dio è diventato anche il nostro Signore, la loro storia è diventata la nostra storia. anche noi eravamo presenti ai piedi del Sinai. Anche noi abbiamo udito la voce del Signore. Studiando ho anche scoperto che in fondo, questa storia non è solo la storia di una collettività ma anche di ogni singolo individuo. Ogni esistenza è sospesa tra esodo e Terra Promessa. La vita è tensione tra memoria e avvento, tra ieri e domani, passaggio dalla promessa alla sua realizzazione. E questa Promessa, questo Avvento non può che essere il ritorno di Gesù: il Messia e del suo tempo.
II comandamento
Il secondo comandamento è da sempre oggetto di scontri ideologici e dogmatici tra le varie denominazioni cristiane. Ci si sofferma molto sulla fenomenologia dell’idolatria, cioè sulle manifestazioni più evidenti e, forse, troppo poco sulla sostanza dell’idolatria. Molti di noi vedono l’idolatria esclusivamente come un peccato legata all’azione del prostrarsi davanti ad un idolo ma forse è un peccato che parte da molto prima, da un atto del pensiero. In questo post ne parleremo un po’.
L’idolatria come atto del pensiero o dell’azione?-
Secondo una delle tradizionali divisioni, i primi due comandamenti sono affermazioni che appartengono al campo del pensiero il terzo alla parola, il quarto e il quinto all’azione, poi si ribalta l’ordine nella seconda tavola in cui il 6° 7° 8° azione, 9° parola e 10° pensiero. Se è vera questa struttura, l’idolatria è prima di tutto un atto del pensiero, a prescindere dalla fenomenologia dell’idolatria che nella forma classica è il prostrarsi e adorare statue e immagini (che ovviamente è indiscutibilmente proibito). Il punto di partenza credo sia capire il pensiero dell’uomo davanti ad un idolo. Cosa significa inginocchiarsi davanti ad una statua o ad un immagine? Probabilmente significa attribuire ad essa una capacità di intervento e cambiamento della realtà e del progetto della vita che invece è insita nella realtà di Dio. L’uomo idolatra è l’uomo che nel pensiero ritiene di aver trovato una forza alternativa a quella del Creatore. Ma è solamente un’illusione.
La rivelazione nella Bibbia è una rivelazione dialogica dove di fatto la parola supplisce o testimonia la carenza di un immagine, in Deuteronomio si dice “..non avete visto niente avete udito una voce..” questo sentire una voce è la testimonianza della presenza di Dio, la stessa immagine è supplita dalla parola.
La fede rivelata è dialogo. La PAROLA e non l’immagine sono al centro del rapporto tra Dio e Uomo.
Da dove nasce il bisogno dell’idolatria?
A questo punto volendo andare fino in fondo al nostro discorso, dopo aver parlato di quale sia il pensiero di un uomo che si prostra davanti ad un idolo, dobbiamo capire come e perché quell’uomo sia giunto ad inginocchiarsi. E’ arrivato il momento di parlare della vicenda del vitello d’oro.
La caduta del ‘vitello d’oro’ fù un abisso (Es 30:11-34:35). Gl israeliti dovettero uccidere amici e parenti con le loro stesse mani. Fù un evento che condizionò irreversibilmente la storia del popolo di Israele e con esso dell’umanità intera.
Accadde che mentre Mosè si trovava sul Monte Sinai per ricevere le Tavole, il popolo di Israele, pensando che Mosè non sarebbe più tornato, si radunò contro Aronne e gli disse: “Vieni, faremo un dio che potremo vedere ed adorare, perché non sappiamo cosa è successo a Mosè”. Aronne ordinò loro di togliersi gli anelli d’oro e di portarglieli, cosa che il popolo fece. Aronne gettò l’oro in uno stampo e ne fece un vitello d’oro fuso, e disse: “Questo è il tuo dio, o Israele, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” Quindi Aaronne eresse un altare annunciando: “Domani sarà la festa del Signore!” Il giorno seguente, il popolo offrì olocausti e sacrifici, mangiando e ballando. Proprio dopo che il popolo era stato salvato e liberato dalla schiavitù d’Egitto e proprio Aaronne, che aveva condiviso con il fratello Moshé la responsabilità di guidare il suo popolo e che sarebbe dovuto essere il Kohen Gadol/il Sommo Sacerdote, accettò di fare un idolo stimolando il popolo stesso all’idolatria. Nessuno si accorse dell’avvicinarsi di Moshè fintanto che egli non fù vicino, segno che ormai nessuno aspettava Moshè. E nel vedere il vitello e nel capire che anche prima di questo essi consideravano egli stesso un idolo ‘.. si adirò Moshè , e mandò dalle sue mani le Tavole’ (Es 32:19). Se avesse portato le Tavole, avrebbero sostituito il vitello con le Tavole e non si sarebbero distolti dal loro errore. Le seconde Tavole e i pezzi rotti delle prime Tavole saranno poi riposti dentro l’Arca dell’Alleanza, per ricordare che le prime che ‘erano opera di Dio’, sono rotte e le Tavole tagliate da Moshè, sono intere. Così accadde che, il giorno in cui il popolo avrebbe dovuto ricevere il dono della Legge sulle Tavole scritte dalla mano di Dio, perirono circa tremila uomini del popolo per mano di fratelli amici e parenti. Quello stesso giorno, tremila e cinquecento anni dopo, durante la festa di commemorazione del Dono delle Tavole della Legge (Atti 2:41), cioè la Pentecoste, circa tremila persone furono battezzate nel nome di Gesù il risorto dalla morte.
Una delle cose che emerge dalla vicenda del vitello d’oro è che il popolo credeva che Mosè non sarebbe tornato, cioè aveva perso la fiducia nella volontà di intervento da parte di Dio ed allo stesso tempo ne cercava un sostituto.
Se quindi l’idolatria non è solo un peccato legata al prostrarsi davanti ad un idolo, ma è prima ancora un atto del pensiero, allora il discorso diventa più ampio.
Un uomo avido di denaro ad esempio da che cosa è spinto in questa sua ossessione? Probabilmente egli non crede nella capacità di intervento nel mondo da parte di Dio e ritiene che il denaro sia l’unica, o quantomeno la più vicina, realtà in grado di garantirgli le migliori cure in caso di necessità, la migliore istruzione per i suoi figli, la sua garanzia per una vecchiaia serena.
L’abisso del ‘vitello d’oro’ è emblatico del fatto che l’idolatria comincia con un gesto d’impazienza. Essa vuole afferrare immediatamente, avere sotto mano ininterrottamente la figura del proprio dio. Impazienza significa non dare tempo al tempo; rifiuto di lasciare all’altro lo spazio di cui ha bisogno per vivere, per essere. L’esperienza del Decalogo, e quindi della Bibbia, è quella della pazienza, che implica il ritrarsi, il dominio delle pulsioni e la fiducia nella volontà di intervento nel mondo da parte di Dio.
III Comandamento
La struttura della Creazione avviene attraverso la promulgazione della PAROLA, Dio crea attraverso questa, e ciò avviene attraverso degli atti estremamente chiari, cioè Dio crea attraverso degli ATTI DI SEPARAZIONE, separa la luce dalle tenebre, la terra dall’acqua il giorno dalla notte. Questa separazione avviene anche attraverso dei limiti, creando dei limiti cioè ogni cosa assume una sua identità una sua funzione ed una sua parte all’interno del Cosmo. Dio, attraverso la PAROLA, genera atti di separazione e crea dei limiti trasformando il caos in ordine.
Tuttavia l’uomo viene creato a sua immagine e somiglianza. Attraverso l’Uomo, Dio crea una sua peculiarità in cui si può rispecchiare e termina la Sua creazione con l’uomo dicendo che è cosa molto buona. Quindi nella creazione dell’uomo non c’è questo atto di separazione e non ci sono quindi questi limiti, dopo avere separato la materia organica e soprattutto inorganica, Dio attraverso l’uomo crea invece una possibilità di contatto con la sua creazione in quanto appunto l’uomo è a sua immagine e somiglianza. Il primo atto di limite che Dio dà all’uomo è nel giardino dell’Eden quando gli vieta di mangiare il frutto della conoscenza del BENE e del MALE ma non lo fa attraverso la parola come in passato ma attraverso un comando cioè in questo senso la PAROLA è diversa: comanda all’uomo di non mangiare dell’albero della conoscenza del BENE e del MALE perché se no sarebbe diventati come lui. Come sappiamo avviene che Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito e l’ordine creato inizialmente da Dio viene completamente sovvertito e si torna al caos e alla maledizione. I limiti che Dio pone come comando nel giardino dell’Eden di separazione fra l’Uomo e la Divinità sono un fatto fondamentale nella Bibbia, e lo ritroviamo nel terzo comandamento cioè non pronunciare il nome di Dio invano potrebbe essere interpretato come un’ulteriore limite che Dio pone all’uomo cioè una separazione tra la parte trascendente e quella immanente di Dio cioè tra Dio e l’uomo. Questa separazione è una delle condizioni indispensabili per avere un rapporto e un dialogo con Dio. Di fatto due Entità per entrare in comunicazione devono essere separate. Ogni qualvolta nella Bibbia l’uomo cerca di trasgredire questi suoi limiti si torna al caos, come nel caso della torre di Babele e tante altre occasioni di quando l’uomo non prende atto della sua identità si torna nel caos e questo è una delle possibili interpretazioni in chiave non rigorosa.
Solo i primi due comandamenti sono in prima persona. Perchè?
Davanti alla montagna infuocata, il popolo riteneva che il Santo Benedetto non avendo labbra non potesse parlare, invece, come spesso accade, ciò che riteniamo essere un limite si rivela essere una possibilità. “Il Signore pronunciò tutte queste parole dicendo…” , questa espressione, come ci spiega Rashì, sta a significare che tutti i comandamenti furono pronunciati dal Santo Benedetto in un unico istante con un unico suono, cosa impossibile se il Santo Benedetto avesse avuto labbra umane.
Tutto ciò che il Creatore voleva comunicare ad ogni uomo presente passato e futuro fù pronunciato sul Sinai, ogni profezia che i profeti avrebbero espresso, ogni racconto, ogni Legge e ogni spiegazione fu pronunciata in quell’istante.
Successivamente Dio iniziò a ripetere i primi due ma il popolo ne fù atterrito e spaventato e temendo di non potere sopportare a lungo la Santità della voce di Dio, chiese a Mosè di intervenire e promulgare i rimanenti otto con la sua voce.
Questo è il motivo per cui i comandamenti dal terzo in poi sono scritti in terza persona.
Abbiamo quindi udito direttamente da Dio i comandamenti che riguardano l’esistenza di Dio e il culto dell’idolatria, che sono quindi permeati nelle nostre cellule e che non sono in qualche modo realtà o verità raggiungibili attraverso la logica attraverso la filosofia attraverso il ragionamento. Questo è il motivo per cui l’esistenza del Santo Benedetto e il culto degli dei degli altri non sono una questione di fede ma un elemento della storia. Il fatto che Dio abbia parlato e che il popolo abbia udito vuol dire che la prova storica dell’esistenza di Dio la abbiamo avuta in modo diretto, empirico.
IV Comandamento
Le religioni sono spesso dominate dalla nozione che anche la divinità, come l’Uomo, risieda nello spazio in località quali montagne, foreste o alberi; il sacro viene associato allo spazio e alla domanda: Dov’è Dio? Spesso nella nostra mente siamo propensi a collocarlo nello SPAZIO cioè nel cielo piuttosto che nell’universo. Il problema è che forse siamo dominati dallo SPAZIO. Noi consumiamo TEMPO per guadagnare SPAZIO. Costruire case, trasportare passegeri e merci, accrescere il nostro potere sullo spazio è il nostro obiettivo. Tuttavia avere di più non significa essere di più: il potere che noi conseguiamo sullo SPAZIO termina bruscamente alla fine dei nostri giorni. Il TEMPO è il cuore dell’esistenza. Il pericolo comincia quando acquistando potere sullo SPAZIO rinunciamo a tutte le aspirazioni nell’ambito del TEMPO, ci vendiamo alla schiavitù delle cose, l’uomo diventa un utensile.
Il tempo per noi è un viscido mostro traditore che ruba momento per momento la nostra vita. Per non dover affrontare il TEMPO, noi cerchiamo rifugio nelle cose dello SPAZIO. Ma la verità è che l’uomo non può sottrarsi al TEMPO. Quanto più meditiamo, tanto più constatiamo che non possiamo conquistare il TEMPO attraverso lo SPAZIO. Possiamo dominare il TEMPO soltanto nel TEMPO.
TEMPO e SPAZIO sono tra loro correlati, non possiamo trascurare l’uno in favore dell’altro. E’ il momento che conferisce il signifiato alle cose.
LA Bibbia si interessa più al TEMPO che allo SPAZIO. Essa vede il mondo nella dimensione del TEMPO e dedica maggiore attenzione alle generazioni e agli eventi, piuttosto che ai paesi e alle cose. Per comprendere l’insegnamento della Bibbia dobbiamo accettarne la premessa che il TEMPO ha per la vita un significato almeno pari a quello dello SPAZIO. Mentre le divinità degli altri popoli erano associate a luoghi o a cose, il Dio di Israele è il Dio degli eventi: il Liberatore dalla schiavitù, il Rivelatore della Torà.
Secondo il libro di Genesi, il termine Qadosh cioè Santo viene usato per la prima volta alla fine della Creazione e viene utilizzato in riferimento al TEMPO: “E Dio benedisse il settimo giorno e lo Santificò”. A nessun oggetto nello SPAZIO viene attribuito il carattere della Santità. agli albori della storia vi era soltanto una santità nel mondo: la santità del TEMPO. Quando sul Sinai stava per essere prinunciata la parola di Dio, fu elevata un invocazione alla santità dell’uomo: “Voi sarete per me un popolo Santo”. Infine soltanto dopo il popolo cedette alla tentazione di adorare il vitello d’oro, fù ordinata l’erezione di un Tabernacolo e quindi la santità nello SPAZIO. In sintesi prima venne la santità del TEMPO, poi la santità dell’UOMO e infine la santità dello SPAZIO.
L’essenza del quarto comandamento è la celebrazione del TEMPO. Per sei giorni la settimana noi viviamo sotto la tirannia delle cose dello SPAZIO ma il SABATO dobbiamo essere in sintonia con la santità del TEMPO, siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno, a volgere lo sguardo dal risultato della creazione in favore del mistero di questa.
Prima l’Uomo o prima il Sabato?
Adamo fu posto nel giardino dell’Eden “per coltivarlo e custodirlo” (Gen. 2, 15). Il lavoro non è soltanto il destino dell’Uomo: esso ha una dignità divina. Ma, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, egli fu condannato alla fatica, non soltanto al lavoro: “Nella fatica mangerai…tutti i giorni della tua vita” (Gen.3,17). Il lavoro è una benedizione, la fatica è la miseria dell’Uomo. Il Sabato è stato creato prima della caduta dell’Uomo e pertanto esso non può rappresentare una astensione dal lavoro inteso come ristoro dalla fatica. L’Uomo non è una bestia da soma e il Sabato non serve ad accrescere la sua efficienza sul lavoro. Tre atti caratterizzano il settimo giorno: “Egli riposò, benedisse e santificò il settimo giorno” (Gen. 2, 2-3). Alla proibizione del lavoro si aggiunge perciò la Benedizione della gioa e l’enfasi della Santità.
Gesù e il Sabato
Nei vangeli è citato un episodio sull’argomento, il fatto è così importante che viene raccontato da Matteo, Marco e Luca. Avvenne che un Sabato Gesù e i suoi discepoli stavano attraversando un campo e questi ultimi avendo fame colsero delle spighe per mangiarle. Alcuni farisei accusarono i discepoli di Gesù di non rispettare i precetti Sabattici. Gesù difese i discepoli citando l’episodio in cui re Davide mangiò i pani di proposizione che potevano mangiare solo i sacerdoti ed infine aggiunge: “ Il Sabato è per l’uomo, non l’uomo per il Sabato. Perciò il figlio dell’uomo è Signore anche del Sabato” (Mt. 12, 1-8; Mc. 2,23-28; Lc. 6,1-5).
Le osservazioni che possiamo fare sono diverse, per cominciare l’argomento non è se Gesù abbia infranto o meno i precetti legati al Sabato ma piuttosto se lo abbiano fatto i suoi discepoli, inoltre ad accusarlo non sono tutti i farisei ma solo alcuni (sintomo del fatto che secondo altri farisei l’azione compiuta non era una violazione del Sabato), ma sopratutto in questa occasione Gesù non parla di abolire il Sabato ma anzi si preoccupa di difendere i suoi discepoli dall’accusa di non rispettare i precetti sabbatici.
Un giorno lessi un libro di Pinchas Lapide che, riguardo all’avvenimento in questione, spiega che l’espressione “figlio dell’uomo” in questo caso non può riferirsi a Gesù, dal momento che nella disputa non si tratta né di azioni di Gesù né di azioni compiute da altri su suo ordine, ma semplicemente di un comportamento spontaneo dei suoi discepoli. Perciò il termine ebraico ben adam o in aramaico bar inash (il vangelo è scritto in greco ma i dialoghi si svolgevano in aramaico), va inteso come “ognuno” oppure “uno di noi”. Questa verità è confermata anche dall’avvenimento della guarigione del paralatico, nella quale Gesù dice: “Affinchè sappiate che il figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: Levati su – disse al paralitico – prendi il tuo letto e vattene a casa tua! E quello si alzò e andò a casa sua”. Dopo di che, nella frase conclusiva, si dice: “La folla, quando vide questo…rese gloria a Dio che aveva dato agli uomini tale potere” (Mt. 9,6-8). Non si dice “all’uomo” né al “figlio dell’uomo” ma puramente e semplcemente “agli uomini” al plurale quindi in definitiva a tutti i figli di Adamo.
In conclusione Gesù non solo non abolisce il Sabato ma lo rispetta, in questo senso abbiamo numerose conferme nei vangeli, volendone citare una potremmo ricordare Matteo 24, 20 in cui Gesù esorta i discepoli a pregare che la loro fuga non avvenga di Sabato o ancora in Luca 4, 32 troviamo scritto “Egli scese a Cafarnao, città della Galilea, e insegnava nei giorni di Sabato”.
Ma v’è di più. Il Sabato secondo l’Ebraismo è anticipazione del tempo Messianico della fine dei tempi o, come dicono i rabbini, riflesso del mondo a venire. In ebraico il mondo a venire è detto anche “Sabato universale”, poiché in esso saranno riposo concordia e pace nel senso di pace con Dio, tra gli uomini e nel cuore di ogni uomo. Pertanto Gesù, che noi cristiani riconosciamo essere il Messia di Israele, non avrebbe mai potuto andare contro un istituzione che parla di Lui, del Suo imminente ritorno e di un tempoormai alle porte.
In Conclusione
Credo che uno dei significati del quarto comandamento sia che il compito dell’Uomo è quello di conquistare lo SPAZIO e santificare il TEMPO. Per tutto l’arco della settimana siamo sollecitati a santificare la nostra vita impiegando le ore per la conquista dello SPAZIO. Nel giorno di shabbat ci è dato di partecipare alla santità che è nel cuore del TEMPO.
Il giorno di shabbat è il giorno del rinnovamento della nostra percezione delle cose, dell’apprendimento dei legami etici rinnovati tra gli uomini, un riapprendimento dell’amore e del dialogo. Shabbat è rifiutare l’assurdità del mondo. Non siamo «gettati nel mondo», nel non-senso e nella «cura», né possiamo abbandonarci alla facilità dell’esistenza e al nichilismo.
Lo shabbat implica, al contrario, la dimensione dell’«avanti», del «davanti a me», della proiezione verso il futuro del mio essere, della forza interiore che ho dentro, del mio «laggiù» interiore. La possibilità che vi sia un al di là dal presente e da me stesso, questa dimensione, altro non è che quella del Messia e di un tempo messianico. «Ricordati dello shabbat!», è un’ingiunzione a vivere messianicamente, a tendere verso il futuro. Esistere significa vivere attivamente e non appiattirsi sulla passività della facilità dell’essere.
«Scegli la vita», questo è il comando della Torah (nel capitolo 30 del Deuteronomio). Lo Shabbat è il desiderio e la possibilità di costruirsi in vista del futuro, di entrare in una dinamica che sappia creare il senso della mia esistenza futura.
Come scrive Abraham Heschel: “l’eternità esprime un giorno”.
V Comandamento
Salivano il sentiero del monte Moria, l’uno portando un PESO di legna sulle spalle e l’altro portando un PESO sul cuore per ciò che di lì a poco sarebbe accaduto: sacrificare Isacco l’unico figlio. Poco prima il Signore aveva chiamato Abramo e lui aveva risposto Hinnèni cioè eccomi, come aveva già risposto la prima volta quando lasciò la sua terra, stavolta però la richiesta è scioccante: “Prendi, su, tuo figlio (et binkhà) il tuo unico (et iehidkhà) che hai amato, Isacco, e vai, vattene verso…”. Abramo obbedisce, egli sa che nulla è in possesso dell’uomo ma tutto è un prestito del Santo Benedetto.
Isacco è nel pieno dei suoi migliori anni, Abramo è anziano. Eppure Isacco si fa legare o si lega egli stessa, mansueto si fa umiliare con una legatura umiliante, una legatura fisica che diventa legame di obbedienza. Akàd è il termine utilizzato nelle scritture per indicare la legatura di Isacco e questa parola compare solo una volta in tutta la Bibbia, solo in questo passo. Abramo brandisce il coltello per macellare (è proprio questo il verbo usato: shòhet cioè macellare) il proprio figlio che è legato sopra i ceppi di legno, mansueto sopra un altare di pietra, e il Signore dice di fermarsi perché “adesso ho conosciuto” (solo adesso? Fin dove arriva, quindi, la conoscenza di Dio della sua creatura?).
Ciò che invece non compare in questo passo è la slegatura Isacco.
Isacco è figura opposta ma simmetrica di Gesù. L’uno in cima al monte Moria l’altro in cima al Golgota, l’uno rannicchiato sopra dei ceppi l’altro inchiodato a braccia aperte, uno sfiora la morte, l’altro la sconfigge. In entrambi i casi non sappiamo della loro slegatura ma ritroviamo il primo a scendere con le sue gambe dal monte Moira con un sorriso profetizzato nel suo nome Isacco cioè risata, l’altro risuscitato in nuovo corpo che adempie la profezia nel suo nome Gesù cioè Dio Salva. La slegatura, in entrambi i casi, è opera segreta tra padre e figlio, scritto tra spazi bianchi delle righe. Il comune denominatore è il legame di onore e di rispetto tra Padre e Figlio.
Come abbiamo detto il verbo Kabed, che troviamo nel quinto comandamento, significa ‘dare PESO’, non è quindi detto di amare, ma di rispettare e onorare i genitori. E’ infatti evidente che non si può imporre di amare, specialmente nei casi in cui i genitori non si sono comportanti durante il corso della vita, verso i propri figli come avrebbero dovuto. Ma l’onore e il rispetto che dobbiamo, le cure che dovute ai nostri genitori esulano da quello che può essere stato il genitore.Un obbligo di amare?
In ebraico, la parola ‘leggero’, contrario di ‘pesante’, si dice qal, vicinissima al termine qalal cioè ‘maledire’. Maledire qualcuno significa non dargli sufficientemente peso, alleggerirlo. Dare peso, riconoscenza e gratitudine: in questo modo il figlio, maschio o femmina, offre la propria benedizione ai genitori.
Imparare il ringraziamento
L’onore e il rispetto reso ai genitori non è altro che la riconoscenza per il bene ricevuto da loro e in primo luogo per la vita che ci hanno donato e la cura con cui ci hanno fatto crescere. Il concetto di riconoscenza è al centro della tradizione biblica.
Lot fuggiva con le due figlie e la moglie da Sodoma e Gomorra (Gn 19). La curiosità spinse la moglie di Lot a violare il divieto di girarsi e guardando la distruzione delle città fù tramutata in una statua di sale.
Le figlie di Lot, nella convinzione che tutta l’umanità fosse stata sterminata, decisero di giacere con il padre e nacquero così due bambini che furono capostipiti di due popoli cioè i Moabiti e gli Ammoniti. Era accaduto però, prima dei fatti di Sodoma e Gomorra, che Lot fosse catturato dai quattro re e poi liberato dallo zio Abramo (Gn 14). Ma per questa liberazione Lot non mostrò alcuna particolare riconoscenza o gratitudine. Secondo i Maestri della tradizione ebraica questo principio di ingratitudine sarà trasmesso anche ai due popoli generati da Lot. Infatti quando Israele entrò nella Terra Promessa essi non gli andarono incontro con pane ed acqua ma assoldarono il profeta Balaam per maledirli. Per questo nel libro di Deuteronomio (23,4) è affermato che gli Ammoniti e i Moabiti non entreranno nell’Assemblea di Dio neanche alla decima generazione.
In questa ottica è sorprendente il fatto che i Moabiti, un popolo escluso che discende da un incesto tra Lot l’ingrato e le sue figlie, facciano parte della genealogia del Messia. Ciò è dovuto al fatto che Ruth è simbolo della gratitudine e della riconoscenza. Ruth è la donna del dono e della dedizione senza limiti, rivolgendosi a sua suocera Noemi dice: ‘dove andrai tu andrò anch’io, dove ti fermerai mi fermerò, il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio, dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta’.
Conclusione
Dai peso a tua padre e a tua madre, dai peso uguale ad entrambi e spingi il carico sulle spalle fino alla sommità raggiunta da Isacco, un altura che è un luogo di incontro in cui sale l’Uomo e scende Dio, fai questo in modo che ‘si allungheranno i giorni’ (questo è l’unico comandamento nel quale si parla di ricompensa). Ogni singolo giorno si prolungherà perché varrà di più. Tu peserai sopra la terra secondo il peso che avrai dato ai tuoi. E quando moriranno continuerai a dar peso nominandoli nel ricordo. Così vedrai i tuoi giorni distendersi, come Isacco che in grazia della sua obbedienza ha avuto in dote l’amore di Rebecca e lunga vita.
Il riconoscimento dei genitori incoraggia il riconoscimento di Dio, così come la gratitudine verso i genitori alimenta la gratitudine per la bontà che Dio conferisce all’uomo.
VI Comandamento
Quando nacque Caino sua madre Eva disse <<ho acquistato un uomo con Dio>> (Gn 4,1), quando nacque Abele non disse nulla. La nascita di Caino è descritta secondo il normale svolgimento di ogni gestazione cioè concepimento, gravidanza e parto. Invece Abele è soltanto il fratello del primogenito, non sembra avere un’esistenza propria. Eva spiega che il nome dato a Caino significa ‘ho acquistato’ dall’ebraico ‘caniti’ da cui Caino, per Abele nulla. Non lo si sente neanche vivere nel racconto biblico. Prima ancora di Caino, forse, è la madre ad uccidere Abele facendone di lui un NULLA e di Caino un TUTTO, stabilendo così da subito una convivenza impossibile.
Nella lingua ebraica tutto ciò che ruota attorno alla parola Abele è legato al ‘nulla’. Abele, in ebraico Havèl, vuol dire ‘non, vapore, condensa’.
Il testo continua raccontando che Abele divenne pastore mentre Caino agricoltore ed un giorno quest’ultimo portò in offerta a Dio alcuni doni della terra mentre Abele portò i primi nati delle sue greggi. Dio apprezzò l’offerta di Abele e non quella di Caino. <<Caino disse ad Abele, suo fratello “…”. Si trovavano nel campo. Caino si è levato verso Abele e l’ha ucciso>> questo fù il primo omicidio del mondo. Secondo il testo Caino disse ad Abele: ‘nulla’ cioè non gli rivolse parola oppure pronunciò il suo nome che vuol dire ‘nulla’, questa è l’origine e la sostanza del primo omicidio della storia del mondo: l’assenza della PAROLA, il NULLA in luogo del dialogo. L’incapacità di comunicare è l’origine della violenza.
L’IO SONO E I DIECI COMANDAMENTI
Siamo nella seconda tavola dei Dieci Comandamenti, quella che regola i rapporti orizzontali tra le persone. Secondo la tradizione le due tavole vanno lette accostandole, in quanto i comandamenti sono in relazione a due a due e si spiegano reciprocamente, quindi il primo e il sesto e così fino al quinto con il decimo.
Se ciò è vero il “non uccidere” viene collegato con “l’IO SONO” del primo dei dieci comandamenti. Ciò perché l’omicida dimentica l’identità della singola persona, l’IO SONO di questa, e la considera generalizzata, spersonalizzata. I nazisti attribuivano ai detenuti dei campi di concentramento un numero che identificava la persona e al contempo ne cancellava il nome, l’identità. Ma ogni uomo ha scritto sul proprio viso la sua unicità ed in questa racchiude l’insieme dell’umanità.
Ogni essere umano, quale che sia il colore, la religione o la nazionalità, discende dallo stesso uomo, ma al contempo è unico. Unicità e uguaglianza: il razzismo è impensabile.
L’IO SONO non può esistere senza il TU, l’uomo non esiste che in rapporto all’altro, sono due entità inseparabili pur restando separate. Ma questa separazione deve essere colmata dalla PAROLA altrimenti si cade nella violenza.
EQUILIBRIO TRA CIELO E TERRA
Il mondo Trascendente, legato alle cose celesti, sta in alto, quello Immanente, legato a cose terrene, in basso. Tra questi due mondi vi è uno spazio che deve essere colmato affinché vi sia una relazione tra le due entità.
In alcune religioni e filosofie l’uomo deve cercare di elevarsi un poco per volta verso il Trascendente in una contemplazione liturgica e mistica credendo che nel momento della morte l’uomo possa raggiungere uno stato dove tutto sarà riparato, i poveri saranno ricchi, i malati saranno guariti e così via. Questa filosofia della consolazione annulla l’importanza della vita terrena e la soggettività dell’uomo affermando che la verità è altrove e che noi siamo parte della vita celeste. Questo modo di vivere la Trascendenza porta all’omicidio dell’individuo perché lo fa ritenere essere già parte di un grande Tutto.
In senso contrario esistono filosofie quali quella di Nitzsche che sopprimono il mondo della Trascendenza affermando che Dio è morto oppure che Dio è la natura e quindi esisterebbe solo il mondo concreto.
Ma la verità, secondo Emmanuel Lèvinas, consiste nel mantenere le due realtà, e più ancora, nel mantenere l’intervallo cioè la separazione, la tensione. Occorre rifiutare di celebrare unicamente il Trascendente o l’Immanente, è necessario mantenere lo spazio e la separazione tra questi due mondi. Tale distanza però, può e deve essere colmata con la PAROLA.
Che cosa significa ‘parlare’? Mantenere una giusta distanza tra chi parla e il suo altro, se questa distanza è eccessiva non ci può essere un autentico dialogo e si cade nell’indifferenza, al contrario se questa distanza è minima o addirittura viene soppressa allora viene eliminata la differenza e l’uno finisce per assorbire l’altro.
Occorre trovare la giusta distanza, quella che Emmanuel Lèvinas ha chiamato PROSSIMITA’.
Conclusioni
Probabilmente l’essenza dell’uomo è la PAROLA, e questa lo distingue da qualunque altra opera del Creato. Il nazismo è nato all’interno di una concezione che vede nell’altro nulla più che un CORPO, l’uomo cioè riposa nell’idea biologica della razza, gli esseri umani sono solo corpi, solo carne. E’ qui che interviene il sesto comandamento che si erge a baluardo dell”IO SONO”, degli uomini indipendentemente da chi siano questi, ciò che importa è che ciascuno interpreti chi è, che si racconti come uomo e che abbia il suo modo di essere uomo.
A questo punto, inevitabilmente vengono alla mente le parole dell’Evangelista Giovanni che esordisce nel suo racconto evangelico dicendo: “ 1 Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. 2 Essa era nel principio con Dio. 3 Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. 4 In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. 5 La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.” Poi ancora “14 E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.”
VII Comandamento
Sette è un numero speciale, impegnativo. In ebraico shiv’ah (= “sette”) e shevu’ah (= “giuramento, patto”) hanno la stessa radice, probabilmente il settimo è un comandamento molto più complesso di quello che può apparire ad una lettura superficiale.
Normalmente si è portati ad associare il settimo comandamento cioè: “non commettere adulterio” ad un problema di relazione, di amore, di passione, e lo si giudica secondo il registro dell’infedeltà. Insomma, se ne fa un problema morale. Forse però non è questo il vero focus del comandamento. Secondo il diritto ebraico, sorprendentemente, l’adulterio ha luogo soltanto se l’altra donna è sposata, cioè concerne esclusivamente la relazione di un uomo, sposato o meno, con una donna sposata. Ovviamente con questo non vogliamo avallare in alcun modo promiscuita o disordini sessuali, infatti è giusto ricordare che la Bibbia tratta la sfera sessuale dell’Uomo in molti altri passi ed in modo molto più approfondito, ma il settimo comandamento, se diamo per buona l’interpretazione ebraica, fa riferimento solo ed esclusivamente al divieto dei rapporti con una donna sposata. Perchè?
I comandamenti si ripartiscono su due tavole, cinque per ciascuna, che si corrispondono a due a due. In generale i primi cinque esprimono il rapporto tra Dio e Uomo, i restanti tra uomo e uomo. Nella prima tavola il Nome di Dio è dominante, nella seconda assente. In tal senso questo comandamento è collegato con il divieto di adorare gli dei degli altri. Il verbo usato per indicare l’adulterio di donna e di Divinità è lo stesso: Tinàf.
Non è un caso che molte volte i Profeti di Israele si servono dell’immagine della donna adultera per descrivere il “tradimento” operato dal popolo d’Israele che ha abbandonato il Suo Dio per seguire divinità aliene. Ne sono testimonianza il terzo capitolo di Geremia e di Osea. Il rapporto con Dio è concepito come un rapporto coniugale, di fedeltà esclusiva. Dio lo Sposo (Ish) e Israele la sposa (Ishah) si cercano, si scoprono si uniscono, si perdono si ritrovno attraverso l’infanzia, la pubertà, i fidanzamenti, gli sposalizi, i dovorzi, le vedovanze e i nuovi incontri. Il potere di risollevarsi è inesauribile. Se la moglie adultera non può più essere ripresa dal marito, Dio è disposto a riavviare il rapporto con Israele in qualsiasi momento purché ci sia Teshuvah.
Se è vero che l’idolatria è legata all’adulterio è però anche vero il processo inverso. L’adulterio è veicolo di idolatria, con tutte le tragiche conseguenze del caso. Quando i Moabiti vogliono stornare da sè il pericolo della conquista israelitica, mettono a disposizione degli Ebrei nel deserto le loro donne, le quali li attraggono al culto orgiastico del Belfagor (Num. 25, 1). Simbolo di spregiudicata dissolutezza e quindi di dissoluzione.
IL MONDO CHE VIENE VERSO DI ME
Nel testo del Levitico al capitolo 18 si parla delle relazioni sessuali proibite e troviamo questa affermazione solenne: “Io sono l’Eterno vostro Dio. Quello che si fa nel paese d’Egitto in cui avete abitato, voi non lo farete. E quello che si fa nel paese di Canaan verso il quale andate, non lo farete” Questo discorso è stato pronunciato nel deserto tra l’Egitto e Canaan. Quindi, non ci si deve comportare come gli abitanti di questi due paesi: “Non seguirete le loro leggi sociali. Adempirete alle Mie. Voi adempirete e osserverete i Miei rituali privati. Io sono il Tetagramma, vostro Dio. Rispetterete le Mie leggi sociali e conserverete i Miei rituali privati; l’uomo vi edempirà e vivrà in essi: Io sono il Tetagramma”. E’ inaspettata e sorprendente la formulazione “…e vivrà in essi”. Veniamo trasporati nel futuro. Secondo Rashì si può interpretare: “vivrà nel mondo futuro”, letteralmente l’ebraico dice olam habà, un espressione che bisognerebbe tradurre con il “mondo che viene”, “il mondo che sta per venire”: riguarda la capacità che ogni singolo ha di iscriversi nella storia che sta per realizzarsi. “Il mondo futuro”, in questo passo, è il mondo che viene verso di me, il mondo che sta avvenendo. Ciò vuol dire che non dobbiamo seguire gli insegnamenti Divini e poi, eventualmente, vivere, ma piuttosto comprendere che questi insegnamenti propongono un principio di vita che si colloca sin dall’inizio nell’ordine della trasmissione e della filiazione. Vivere vuol dire trasmettere vita, il che va molto oltre il problema biologico: vuol dire trasmettere principi sociali, vuol dire che coloro che verranno dopo saranno anch’essi capaci di dare un senso al mondo, rivestendolo di significati.
UNA RIVOLUZIONE SENZA CAMBIAMENTO
Nei vangeli l’argomento dell’adulterio è trattato in diversi passi. In Matteo al capitolo 5,27-28 Gesù disse: “«Voi avete udito che fu detto: “Non commettere adulterio”. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”. Ma in un altra occasione invece troviamo Gesù (Giovanni al capitolo 8), chino sulla polvere a scrivere e con pochi gesti e parole cambia la condanna di un adultera. La cosa sorprendente è che se da un lato Gesù dà un interpretazione ancora più rigida del settimo comandamento, slegandolo dall’azione e imputandolo al pensiero, dall’altro si preoccupa di intervenire in una condanna a morte per adulterio. Quindi da una parte estremizza ma dall’altra allevia la punizione.
Ma v’è di più, se scorriamo il dito a ritroso nel capitolo 5 di Matteo, arriviamo al versetto 17 in cui Gesù nel modo più chiaro possibile afferma: “17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto”.
Siamo di fronte ad un paradosso, una rivoluzione senza un cambiamento. Da una parte la Legge è confermata ed anzi portata all’estrema interpretazione ma dall’altra Gesù stesso si preoccupa di intervenire durante l’esecuzione di una condanna alleviandone la pena.
La soluzione, probabilmente, potrebbe essere nel capitolo 8 di Giovanni dove, come abbiamo già detto, troviamo Gesù a scrivere sulla polvere del suolo. Non sappiamo cosa abbia scritto (sappiamo solo quello che ha detto), Matteo non sà o non si preoccupa di farcelo sapere, forse vuole che ci concentriamo sul gesto. Perché scrive sulla sabbia? Sappiamo che di Sabato è proibita la scrittura a meno che non sia fatta su polvere o sabbia, ma quel giorno non poteva essere Sabato, infatti non si eseguono condanne di Shabbat. Eppure quel gesto di scrivere sulla polvere forse è la chiave, forse racchiude il messaggio. Probabilmente Gesù, con quel gesto, stava evocando un tempo futuro in cui anche quel giorno sarebbe stato Sabato perché ogni giorno sarà Shabbat e quel tempo non può essere altro che il Suo cioè l’era Messianica che gli ebrei chiamano anche: “Sabato universale”, poiché in esso saranno riposo concordia e pace nel senso di pace con Dio, tra gli uomini e nel cuore di ogni uomo.
Quel gesto di scrivere sulla sabbia è una scheggia di eternità, ci parla di un tempo che è ormai alle porte!
VIII Comandamento
L’ottavo comandamento sembrerebbe semplice e di immediata comprensione, ma forse ci sono un paio di riflessioni da fare. Esso recita seccamente: “non ruberai”, è formulato in modo generico senza menzione di nessun oggetto preciso, molti di noi danno per scontato che l’argomento sia la preservazione della proprietà e dei beni materiali ma forse non è proprio così…
COSA E’ PROIBITO RUBARE?
Troviamo questo comandamento tra il divieto dell’omicidio, dell’adulterio e della falsa testimonianza, che rientrano nella sfera dei diritti personali. Questo comandamento sembrerebbe fuori luogo in quanto non si occupa dei diritti personali. Un’altra osservazione che si potrebbe fare è che il Decalogo proibisce solo i crimini più gravi contro l’Alleanza, castigandoli con l’esclusione dalla comunità, ma Israele non incluse mai nella sua legislazione sanzioni così dure a difesa dei beni materiali. La persona umana era ai suoi occhi troppo sacra per sacrificarla per proteggere beni esterni. Inoltre bisogna considerare che nel Pentateuco troviamo poche disposizioni legali a proposito del furto di animali (Es 21,37), del furto con scasso (Es 22,1-3), dell’appropriazione indebita di un oggetto perduto (Es 22,8), del furto di una cosa affidata in deposito (Es 22,9-12) e a proposito della riparazione dei danni. In Israele, tutto ciò che si riferiva alla vita o la libertà dell’uomo, si castigava molto severamente, mentre il danno causato ai beni esteriori si reprimeva più leggermente, s’imponeva solo la pena di restituzione, a cui si soleva aggiungere una multa piuttosto leggera (a differenza ad esempio dei codici babilonesi vari casi di furto implicavano la pena di morte). Se questo è vero allora quale sarebbe l’oggetto del furto a cui si riferisce questo comandamento?
Secondo la tradizione ebraica, l’ottavo comandamento non proibisce il furto in generale, ma il rapimento di un uomo libero, fatto soprattutto in vista di venderlo come schiavo. È il caso di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli: «Perché io sono stato portato via ingiustamente dalla terra degli Ebrei», disse Giuseppe al Faraone (Gen 40,15). Ciò che si protegge in questo comandamento è il diritto dell’uomo alla libera disposizione di se stesso. La libertà, come la vita, costituiva un bene sacro.
Ammettendo questa interpretazione, l’ottavo comandamento non appare più fuori posto in quanto avrebbe per oggetto un diritto della persona. I’ottavo comandamento aveva dunque nella sua origine un oggetto ben definito. Proteggeva e garantiva la libertà dell’uomo e proibiva la sua riduzione allo stato di schiavo. E così anche il legame che lo unisce al prologo storico, appare molto più chiaramente. Siccome Israele è stato liberato dalla schiavitù dell’Egitto, non deve rapire nessuno di questi liberati per fare di lui uno schiavo. Rapendo uno dei suoi fratelli, l’israelita contraddice il gesto liberatore del Signore e compromette la stabilità della comunità intera composta, nella sua origine, solo da “uomini d’Israele”.
CORPO O ANIMA?
Il grande Rashì si spinge oltre egli sostiene che l’oggetto di questo comandamento sia l’anima. Per capire quanto sostiene Rashì dobbiamo però considerare che secondo il Midrash ci sono cinque livelli di anima, il primo è il nefesh ed è questo l’oggetto della proibizione del comandamento. Questo livello di anima è il corpo aperto verso l’esterno, che comunica e riceve. Al primo livello l’anima è la finestra sul mondo ossia il nostro modo di ascoltare di guardare, di odorare e di parlare. Quindi “tu non ruberai l’anima di qualcuno” significa “tu non ruberai ciò che costituisce la maniera di parlare di ascoltare e di guardare e di odorare di qualcun altro”. La soggettività di molte persone è imprigionate in ciò che le circonda: non dicono non vedono non sentono e non odorano diversamente da quanto imposto dal conformismo sociale. Il loro giudizio è copia di quello della massa. Rubare un anima è rubare un esistenza non consentendole di essere se stessa.
LIMITE E MOVIMENTO
A questo punto del nostro viaggio attarverso il Decalogo penso sia arrivato il momento di fare un breve cenno ai precetti negativi e positivi. Complessivamente il pentateuco contiene 613 comandi (mitzvot) dei quali 248 sono comandamenti positivi, obblighi e 365 sono comandamenti negativi, divieti: i precetti positivi obbligano a compiere una determinata azione; quelli negativi vietano di fare una determinata azione. Il numero di questi precetti è sicuramente carico di significati simbolici, infatti come insegna la tradizione Rabbinica, 248 era considerato il numero delle ossa del corpo umano e 365 sono notoriamente i giorni dell’anno (come anche il numero dei legamenti che collegano tra loro le ossa); attraverso questi numeri la Bibbia insegna che con le nostre 248 singole ossa dobbiamo compiere le 248 azioni prescritte e che ogni giorno dell’anno dobbiamo impegnarci a non violare i 365 precetti negativi.
L’ottavo è uno dei 365 comadamenti negativi. La negazione si esprime in ebraico con la parola lo che indica sia un limite che una direzione, infatti se si invertono le lettere di lo, ossia lamed e alef si ottiene el che significa ‘direzione’ ma anche ‘Dio’. Infatti la percezione che l’uomo ha di Dio è al contempo limitazione e movimento. Movimento verso l’alto perché esiste in noi l’impulso di trascendere di andare verso l’alto. Limitazione in quanto non tutto è permesso, non tutte le cose sono eguali. Vivremmo nel caos se non ci fossero limiti. La Creazione si tiene insieme perché racchiusa all’interno di limiti. I limiti dell’uomo sono nello spazio che deve lasciare agli altri per poter vivere.
Secondo Rabbi Itzhaq Luria, il mondo non è stato creato ex nihilo cioè dal nulla. All’inizio esisteva una realtà assoluta che riempiva tutto, l’Essere di Dio. Non era il Nulla ad esistere ma il Tutto. Non c’era posto per nient’altra neanche per il mondo. Poi accadde che la ‘Luce Superiore Infinita’ si è contratta, Dio ha lasciato un vuoto, uno spazio in cui ha potuto essere la Creazione. Vi è equilibrio di tensioni per mantenere lo spazio vitale per l’universo. Questa forza è Shaddai/Basta uno dei nomi di Dio, Egli è Colui che dice basta ed impedisce all’infinito di riempire il vuoto. I limiti sono essenziali per mantenere l’esistenza dell’universo, l’uomo come l’universo ha dei limiti da rispettare.
IX Comandamento
“Il SIGNORE disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4,9). Questa fù la risposta di Caino alla domanda su dove fosse suo fratello. Caino nega di sapere dove sia suo fratello. Per noi non è possibile una tale risposta, noi dobbiamo poter rispondere di lui. Noi siamo custodi di nostro fratello e del nostro prossimo. Il suo futuro ci è affidato e dipende dalla nostra TESTIMONIANZA.
Saremmo portati a credere che il nono comandamento sia un divieto generale contro le menzogne e che riguardi il singolo individuo. In realtà, secondo la tradizione rabbinica è qualcosa di più specifico, l’argomento è il legame con il futuro e con il nostro prossimo. Di fronte al nono comandamento ognuno di noi è obbligato a rispondere del proprio prossimo attraverso la propria testimonianza; è stabilita la responsabilità nei confronti degli altri. Gli uomini ai piedi del Sinai, generazioni presenti, passate e future, udendo questo comandamento divennero legati gli uni agli altri. Ognuno divenne responsabile, con la propria TESTIMONIANZA, della persona di fianco. Ognuno divenne cellula di un unico organismo.
UN CASO DI FALSA TESTIMONIANZA
Così come l’assenza della PAROLA crea una violenza che uccide, come abbiamo visto nel sesto comandamento, l’abbondanza della PAROLA causa la medesima violenza. Basti pensare che perfino gli avversari di Gesù utilizzarono la falsa testimonianza contro di Lui ed ottennero una sentenza di condanna a morte. I vangeli raccontano che alcuni affermarono: “Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo Tempio fatto da mano d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo, oppure ancora: Posso distruggere il Tempio di Elohim e ricostruirlo in tre giorni” (Mc 14, 55-58 Mt 26,61). Questa falsa testimonianza, come quella che il serpente pronuncia di fronte a Eva per tentarla, ha un fondo di verità. Riprende infatti, falsificandolo, un episodio durante il quale Gesù aveva condannato violentemente le pratiche simoniache che si svolgevano quotidianamente nel Tempio. Offeso dal vedere il Santuario consacrato al Signore trasformato in “una spelonca di ladri”, ne cacciò tutti i mercanti e i cambiavalute che avrebbero dovuto esercitare il loro commercio in altri luoghi.
L’episodio del Vangelo mostra l’intento degli accusatori di Gesù di utilizzare la PAROLA per intervenire nella realtà del mondo. Con la loro falsa TESTIMONIANZA avrebbero voluto spezzare un legame con il futuro.
La PAROLA non è soltanto linguaggio. Come abbiamo gia detto nel primo comandamento, la PAROLA, che l’uomo possiede, significa libertà di creare il mondo. Ma gli dà anche la capacità di distruggerlo. Non dobbiamo dimenticare che il mondo è stato creato dalla PAROLA. C’è forza di costruzione e di distruzione nella PAROLA. Il nono comandamento insiste sulla parola che fa soffrire, che produce una tale violenza sull’altro da renderlo incapace di un futuro.
TESTIMONANZA E LEGAME GENEALOGICO
Allorché non c’è la volontà di accompagnare il nostro prossimo nel suo futuro allora c’è falsa testimonianza. Con la menzogna si rende impossibile la costruzione di un futuro. La parola ebraica Kesher indica il tipo di legame genealogico, ma se ne invertiamo le lettere prende il significato di menzogna. La menzogna inverte il legame genealogico.
Il nono comandamento parla del collegamento con il futuro. Secondo l’ebraico la radice della parola TESTIMONE è la stessa della parola ETERNITA’. Il TESTIMONE quindi non è legato ad una memoria del passato, ma piuttosto rappresenta un collegamento con il futuro. Colui che rende falsa testimonianza, cioè il falso TESTIMONE, spezza un collegamento con il futuro.
Nella Bibbia la prima testimonianza si ha in Genesi 31,45. Giacobbe si ricongiunge con il suocero e decidono di prendere delle pietre per elevare un piccolo monte che testimonierà la loro alleanza. Per la prima volta appare la parola testimonianza/ed . Il piccolo monte testimonia un futuro riconciliato. Al femminile la parola ed significa invece comunità cioè edà, e una comunità altro non è che un insieme di persone che aspirano a costruire insieme un futuro, senza questa volontà di avvenire non c’è comunità. La testimonianza di Giacobbe consisteva in pietre radunate.
Ogni volta che la parola pietra interviene entra in gioco il concetto di legame genealogico. “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, …” (Mt 16,18-19) sarebbe stato detto secoli dopo.
CONCLUDENDO
Potremmo quindi dire che Gesù dicendo: “..mi sarete TESTIMONI a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8) forse ci stia chiedendo non di essere una memoria del passato, ma piuttosto un collegamento con il futuro. Infatti, se è vero quanto abbiamo detto allora nel concetto di TESTIMONIANZA è racchiuso anche l’idea della costruzione di un futuro comune e di un legame genealogico.
X Comandamento
Nel testo del decimo comandamento sembrerebbe esserci, a prima vista, uno spreco di parole.
Il comandamento inizia con “non desidererai…” menzionando, in primo luogo, la “casa”, poi ripete: “non desidererai la moglie…”, enumera quindi, diverse cose appartenenti al prossimo e finisce col concludere: “…nulla di ciò che appartiene al prossimo”. Ne potremmo dedurre quanto segue: poichè questo “nulla” include la casa, la moglie del prossimo e tutto il resto, apparirebbe superfluo dare tutte quelle precisazioni. Se il decimo comandamento fosse stato cosi formulato: “non desidererai nulla di ciò che appartiene al tuo prossimo” si sarebbe avuto un comandamento altrettanto conciso e netto di “non assassinerai” o “non ruberai”. Inoltre, dal momento che secondo la tradizione ebraica, “casa” significa sempre “moglie”, si poteva quindi fare a meno di includere quest’ultimo termine nell’elenco di ciò che non è da desiderarsi. Ma forse è proprio questa parola: “casa”, nominata per prima, ad aprire la strada verso ulteriori e inaspettati significati.
La vigna di Nabot
Maimonide dichiara: chi vuol capire cosa significa “non desiderare” legga il capitolo 21 del primo Libro dei Re. Se vogliamo seguire il consiglio troveremo che il capitolo in cui si parla della storia della vigna di Nabot. L’episodio si snoda in seguito allo scisma che, dopo il regno di Salomone, ha diviso in due il Regno: il Regno di Giuda al sud e quello di Israele al nord. Tra i vari re, tre sono quelli famosi per empietà: Geroboamo e Acab sul regno di Israele e Menasse sul regno di Giuda.
Nel racconto della vigna di Nabot, concupita da re Acab, è proprio l’ultimo comandamento ad essere trasgredito. La storia è questa:
1 In seguito avvenne il seguente episodio. Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab re di Samaria. 2 Acab disse a Nabot: «Cedimi la tua vigna; siccome è vicina alla mia casa, ne farei un orto. In cambio ti darò una vigna migliore oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale». 3 Nabot rispose ad Acab: «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri».
4 Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: «Non ti cederò l’eredità dei miei padri». Si coricò sul letto, si girò verso la parete e non volle mangiare. 5 Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: «Perché mai il tuo spirito è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?». 6 Le rispose: «Perché ho detto a Nabot di Izreèl: Cedimi la tua vigna per denaro o, se preferisci, te la cambierò con un’altra vigna ed egli mi ha risposto: Non cederò la mia vigna!». 7 Allora sua moglie Gezabele gli disse: «Tu ora eserciti il regno su Israele? Alzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la darò io la vigna di Nabot di Izreèl!».
8 Essa scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai capi, che abitavano nella città di Nabot. 9 Nelle lettere scrisse: «Bandite un digiuno e fate sedere Nabot in prima fila tra il popolo. 10 Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l’accusino: Hai maledetto Dio e il re! Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia».
Questa storia finisce male. Nabot viene trascinato in giudizio ed ucciso. Jezabel va da Acab e gli comunica: “Ora hai la tua vigna…”, ma il profeta Elia interviene e gli dice: “hai assassinato, e ora prendi possesso! Così parla l’Eterno: nello stesso posto in cui i cani hanno leccato il sangue di Nabot, leccheranno anche il tuo…” e la profezia si realizza.
Il rapporto tra il decimo comandamento e questa storia sembrerebbe evidente: il desiderio, nella sua forma più negativa e in casi estremi, può portare ad assassinare! La storia sembrerebbe limpida. Ma troppi interrogativi restano sospesi. Vediamoli.
Acab ha già una vigna, ma la vuole scambiare a qualunque prezzo con quella di Nabot. Perché insiste così tanto per fare questo scambio? Perché vorrebbe trasformare la vigna bramata in un orto? Anche la risposta di Nabot è strana, avrebbe semplicemente dovuto dire: “Non ti posso dare la mia vigna”, ma invece egli dice: “Mi guardi l’Eterno dal cederti l’eredità dei miei padri!”, perché?
L’unica cosa che appare, fin qui, evidente è che il problema non è la vigna.
Ma chi è in realtà questo re Acab? In ebraico questo nome significa letteralmente “padre-fratello”, questo perché secondo la tradizione ebraica il nome di Acab ne rivela il mancato rispetto della legge della genealogia. In altre parole egli è padre e fratello contemporaneamente – stiamo parlando di incesto-. A causa di questo peccato Acab ha pervertito la successione delle generazioni e si è reso incapace di trasmettere la PAROLA da una generazione all’altra. Inoltre leggendo bene il testo ci rendiamo conto che egli non vuole una nuova vigna, infatti egli dice: “cedimi la tua vigna perché io possa farne un orto” in ebraico “orto” non è un espressione qualsiasi ma è un termine che rimanda alle origini dell’uomo fin al giardino dell’Eden. Acab dice ancora: “è vicina alla mia casa”, nella nostra lingua questa informazione sembra irrilevante ma in ebraico suonerebbe così: “si trova vicino alla mia BET” ossia alla mia origine. Ecco il vero oggetto della concupiscenza di Acab! In sostanza è “l’eredità dei suoi padri” che egli brama. La vigna racchiude il legame genealogico che Acab ha sovvertito a causa del suo peccato di incesto. Il desiderio di Acab diventa brama, è un prurito che diventa artiglio e dirige gli eventi guidandoli alla catastrofe. Forse Acab è corroso dall’invidia o forse sente la necessità di sistemare la sua storia per poter andar incontro al suo avvenire.
In conclusione il comandamento sembrerebbe quindi esprimere la proibizione di bramare non solo la vita del nostro prossimo ma anche la sua origine, la sua storia e la sua eredità. In fondo se ci pensiamo la maggior parte delle persecuzioni contro Ebrei e Cristiani trovano la loro origine proprio nella brama di appropriarsi non solo dei beni materiali ma anche dell’eredità spirituale, basti pensare ad esempio alla follia nazista che da un lato pregava degli ebrei (Gesù, gli Apostoli, Maria…) e dall’altro ne pianificava la distruzione inventando accuse, predicando pregiudizi dai pulpiti e istigando alla violenza; desideravano la nostra Divinità o più probabilmente la nostra eredità spirituale e bruciavano i libri, le scuole e le case di preghiera per possederla. Ma in questo comandamento noi siamo tenuti a tenere a freno il morso del desiderio, a dominarlo. Noi dobbiamo saper ammirare senza voler togliere, dobbiamo saper governare quel sentimento che nasce dalla disparità.
UN INTERPRETAZIONE PENULTIMA…
Ovviamente questa, come anche quelle dei precedenti articoli dedicati ai comandamenti, è solo una delle interpretazioni possibili. Una volta un rabbino ha detto: “Non insegno dei pensieri, ma il desiderio di mettersi a pensare”, le nostre interpretazioni e le nostre risposte sono limitate, sono vincolate al tempo che viviamo, sono sempre penultime, mai definitive. Ma occorre continuare ad ascoltare la Parola, dare nuove interpretazioni, significati inediti, suscitare nuove emozioni, nuova meraviglia. Nelle Dieci Parole, nella Parola di Dio c’è la vita. Interpretare dice il nostro incessante stupore di fronte al miracolo della vita. Amare la vita significa porsi all’ascolto Parola di Dio con i suoi mille bagliori di luce, con la sua forza eterna in cui tradizione e rinnovamento aprono alle mille scintille di una lettura che ne mostra l’incessante freschezza.
EPILOGO
Alla fine di questo piccolo studio sui Dieci Comandamenti ho, inaspettatamente, trovato un comune denominatore a tutti i discorsi che abbiamo fatto: la Libertà.
Su cosa sia la Libertà di cui stiamo parlando, mi sono reso conto di aver già scritto abbastanza nei precedenti articoli e non ho voglia di ripetermi annoiando il lettore, adesso però vorrei fare una cosa più semplice cioè descriverne la forma. Se infatti è vero che è complesso definire la Libertà che Dio ci regala e di cui parlano i suoi Comandamenti e altrettanto vero che disegnarla è molto più semplice. Come racconta la Bibbia, la legge è stata donata divisa in due tavole di pietra. Cinque comandamenti su ogni tavola. La prima tavola regola i rapporti in verticali, cioè quelli tra Dio e l’Uomo, tra Creatore e Creatura. La seconda tavola regola invece i rapporti orizzontali tra gli uomini, tra le creature. Geometricamente è inevitabile che la verticale della prima tavola incontri l’orizzontale della seconda in uno e un solo punto. La figura che compongono queste due rette è la CROCE che è simbolo di incontro tra Dio e Uomo, che è possibilità per quest’ultimo. Sono convinto che se i dieci comandamenti avessero un’ombra questa sarebbe a forma di croce. Inoltre la prima parola dei Dieci Comandamenti è ‘Anochì’ cioè ‘Io’ (riferito a Dio) l’ultima è ‘lereachà’ cioè “per il tuo prossimo”, quasi a condensare che tutti i nostri doveri di esseri umani sono contenuti entro questi due confini; da una parte c’è Dio e dall’altra c’è il mio prossimo. E se io fuoriescono da questo territorio, non sono più in regola. Cioè, se dedico tutta la mia vita a Dio e mi disinteresso del mio prossimo, non sono in regola e ugualmente per il contrario. Quindi la mia vita deve essere in equilibrio tra questi due poli. Dunque la forma della Libertà è la CROCE e nel centro di questa, punto di incontro e di equilibrio tra il trascendente e l’immanente tra Dio e il nostro prossimo: Gesù, il Messia che sta per tornare.
Tratto da www.quarev.com - Fratello Dario